mercoledì 29 luglio 2015

L’UOMO CHE RUBAVA I POMODORI prima puntata

Manuela, ottant’anni, tutti evidenti, rughe e acciacchi compresi.
Sfoglia il quotidiano, quasi le viene da piangere: “Ma perché uccidono tante donne, cosa c’è nell’aria? Forse che l’aria di Cernobyl, oltre ad aver portato un aumento dei tumori, ha inquinato l’elettricità dei neuroni maschili?”
Manuela chiude il giornale arrabbiata, “devo smettere di leggerlo”, un ragazzino non ancora maggiorenne ha ucciso la fidanzatina: l’ha bruciata!
“Ma perché, ma perché?”.
Un’altra poi, il ragazzo gli ha maciullato la milza e lei lo perdona e vuole ritornare con lui.
“Ma perché, ma perché?”.
Manuela pensa, pensa e ricorda.
Si era sposata giovanissima, subito un figlio maschio, poi tre femmine.
Il marito nei campi, lei doveva solamente badare ai bambini, curare gli animali da cortile, coltivare l’orto, far da mangiare. Inoltre, due volte alla settimana, lavare al fiume la biancheria della famiglia del notaio, per racimolare qualche soldino…ah dimenticavo c’erano anche le mucche da portare al pascolo.
La sera il marito rincasava affamato e brontolava se non era tutto pronto, Manuela si sentiva impaurita, non le piaceva essere presa a male parole, gli urli poi la facevano rattrappire nelle spalle, avrebbe voluto essere un topolino e poi nascondersi in un buco.
Dopo cena il marito usciva, nelle case sparse sulla collina, dove a turno, si danzava ogni sera accompagnati dal suono della fisarmonica.
Manuela aveva vent’anni, anche a lei piaceva ballare, ma rimaneva a casa, a letto coi bambini, non era poi importante ballare, meglio il profumo inebriante dei figli.
Al marito piaceva fare i complimenti alle altre donne, per lei solo improperi, questo le dispiaceva un pochino, ma ancora di più le dispiaceva fare il suo “dovere”.

Lui tornava a casa dal ballo, faceva sloggiare dal lettone i bambini, e Manuela doveva, doveva e poi doveva anche annuire e dire che le era piaciuto. 


immagine di Teoderica

venerdì 24 luglio 2015

STORIA DI UN MELANGOLO (quarta e ultima parte)


 Le arance ci portano il profumo anche di altre mitologie, giungono in occidente dalle terre dove nasce il sole, dall'oriente.  
Tanto avevo rotto le scatole ad amici e familiari con la storia del  Melangolo, che noi al nord siamo sfortunati, non abbiamo le arance, solo pesche e mele, non possiamo goderci la vista degli alberi carichi di mille piccoli soli, che mi regalarono un alberello di mandarini cinesi il Kumquat, strettamente imparentato col  Melangolo ma più resistente al freddo.
La pianta di Kumquat che in realtà si chiama Fortunella, appartine alla famiglia delle Rutaceae come gli agrumi in genere.
Gli agrumi nella mitologia greca furono portati da Giunone a Giove quando divenne sua sposa   gli portò come dote alcuni alberelli che producevano dei meravigliosi pomi d’oro, arance e limoni, simboli d’amore e  fecondità, un simbolismo tuttora vigente, vista l’usanza di scegliere proprio i fiori di zagara per i bouquet nuziali. 

Giove, dovette considerare tanto caro e prezioso quel dono che li custodì gelosamente in uno stupendo  giardino sito in una parte remota del mondo allora conosciuto, alle pendici del Monte Atlante, incaricando come custodi le mitiche ninfe Esperidi, avvenenti fanciulle dal canto dolcissimo che venivano coadiuvate in questa delicata incombenza dal drago Ladone.
Purtroppo per Giove, tali accorgimenti si dimostrarono insufficienti; i preziosi alberi furono infatti sottratti da Ercole, nella sua undicesima fatica, dopo aver combattuto un’estenuante lotta in cui ebbe la peggio il terribile Ladone. Da allora, fortunatamente anche gli uomini ebbero gli agrumi.

E  anch'io che ho amato tanto il melangolo, ho da vari anni il mio agrume, certo  i frutti sono grossi solo come noci, ma quando vi passo accanto ne rubo un paio e li mangio strizzando gli occhi, perchè sono amari come il melangolo e aspri come il limone, ma mi piace tanto farlo.
Con il Kumquat si possono fare ottime ricette, il pollo con sedano, carote e mandarini, si possono candire, sciroppare, mettere sotto cognac, la marmellata è buona ma troppo laboriosa non fa  per me, e poi conosco un'ottima ricetta per fare una crostata buonissima e bellissima, non vi posso dare le ricette perchè mi servono per prendere alla gola gli uomini, certi segreti non si svelano.
Sto scherzando naturalmente, ma non scherzo nel dirvi che trovo il nome del Kumquat cioè Fortunella un po' il nume della casa.


immagine di Teoderica 

domenica 19 luglio 2015

STORIA DI UN MELANGOLO ( terza parte)


 Mio fratello, si innamorò perdutamente di una ragazza romana, fui invitata al suo matrimonio tenutosi a Roma, qui reincontrai il melangolo, abitando io al nord, il  melangolo proprio non esiste qua, ed anche le arance, sì ci sono, a quintalate,  ma non certo sull'albero.
La cerimonia si svolse nella severa, spoglia, luminosa e spagnoleggiante chiesa di Santa Sabina, mio fratello cercava un legame fra Ravenna e Roma, lo trovò in questa chiesa sorretta da Domenicani sin dal 1222, Dante sepolto a Ravenna studiò dai Domenicani, esaltandoli nel suo Capolavoro. 
Anch'io ho come Dante una passione per i Domenicani, così discorrendo con uno di loro sono venuta a  conoscenza di una bomba presente nella chiesa, la cosiddetta "bomba" di San Domenico
L’immaginario del popolo romano fece nascere la credenza che l’antica basilica, come tutte le chiese sorte sopra i templi pagani, fosse presa di mira dai diavoli. Poco dopo l’ingresso, in un angolo a sinistra su una colonna, c’è una pietra ovale di basalto nero con tre fori, nota come la bomba di San Domenico.
Secondo la tradizione, la pietra fu scagliata da un Satana infuriato contro Domenico di Guzman, fondatore dell’ordine domenicano, che era solito pregare sopra un sepolcro-altare che conteneva le ossa di alcuni martiri. La pietra colpì il sarcofago e ancora oggi sono visibili i fori provocati dalle dita fiammeggianti del diavolo. In realtà la pietra è probabilmente un peso di una bilancia romana o una macina di mulino rinvenuta nei sotterranei della chiesa.
Accanto alla chiesa una terrazza/giardino con una vista mozzafiato sulla Città Eterna, con tanti alberi di  Melangolo, li riconobbi subito, i frutti sono più tosti e corposi, con un colore  più vivo di quello delle arance. 
Il giardino deve le origini del suo nome, Giardino degli Aranci, alle leggende nate intorno alla vita di San Domenico di Guzman, fondatore dell'ordine dei Domenicani che visse e operò nel monastero.
Così, un arancio nel giardino del chiostro, ancora visibile da una apertura nella navata, è proprio quello che il Santo aveva portato dalla Spagna.
La leggenda narra che da quell'albero Santa Caterina abbia colto le arance donate a papa Urbano VI, candite. La pianta conserva ancora un che di miracoloso: nonostante sia ormai secco, un altro albero è cresciuto sui suoi resti e continua a fare frutti! Così l'orto del convento divenne "Il Parco degli Aranci", e numerosi sono ora gli alberi, che producono arance amare, piantati per decorare il giardino.
E così il melangolo è tornato a farmi visita e voi credeteci o no come bomboniera ho ricevuto, fra i tanti alberelli in ceramica che erano il dono scelto per gli ospiti dagli sposi, di melangolo, di pero, melo, limone ecc., un alberello di melangolo, l'ho messo tra i miei libri, e sappiate che non ho barato perchè i doni  erano  in scatole di cartone , incartate e infiocchettate.


immagine di Teoderica

martedì 14 luglio 2015

STORIA DI UN MELANGOLO ( seconda parte)



 Pietro Bembo è stato il primo letterato a descrivere le pene d'amore, sia al maschile che al femminile. Sino al suo capolavoro letterario, gli "Asolani".
Per un maschio era assolutamente disdicevole raccontare, e forse anche provare, pene d'amore. Con il suo libro, questi sentimenti divengono oggetto di struggimenti descritti senza alcuna remora.
Per l'epoca fu quasi una rivoluzione culturale.
Giorgione rappresenta in una sua opera le pene d'amore, dove vengono dipinti due giovani. L'uno, in primo piano, è sognante, malinconico e stringe in mano un melangolo, frutto simbolo dell'amore nelle sue diverse sfaccettature. Alle sue spalle, rubizzo e fiero, un secondo giovane affronta con tono assai diverso la passione amorosa, a simboleggiare l'amore sensuale, fisico, che non si pone troppi problemi. Due facce di un medesimo sentimento, meravigliosamente raccontate sia dalla scrittura del Bembo che dal pennello del Giorgione.
 Melangolo, Citrangolo o più comunemente Arancio amaro sono i nomi volgari del Citrus aurantium, un alberello sempreverde, dalla chioma folta, che si fa notare soprattutto per i frutti che spiccano, nel fogliame di un bel verde intenso e brillante, come globi d'oro.
I botanici hanno chiamato questi frutti  "esperidi".
È un nome che ci rimanda alla mitologia greca, alle Esperidi appunto, mitiche figlie della Notte, di una notte che cela in sé il sole, i suoi frutti d'oro.
 Le Esperidi infatti, con i loro quattro nomi (Lipara, Crisotemi, Asterope e Igea) indicano quattro fondamentali qualità solari, rispettivamente: la morbida luce, l'ordinamento aureo, il folgorio, la salute.
Le Esperidi perciò erano poste a guardia di un giardino di piante solari, portatrici di pomi d'oro.
Quindi il melangolo porta malinconia d'amore, ma a  Oriente c'è il sole e da  Oriente provengono le arance, tutte anche il  melangolo, quindi a me piace pensare  che l'amaro del  melangolo sia solo l'amarezza di un amore che finisce, amarezza dovuta all'incapacità di coltivare questo amore, il quale è come un fiore che  appassisce se non gli si da acqua.


immagine di Teoderica

 


giovedì 9 luglio 2015

STORIA DI UN MELANGOLO ( prima parte)





Nella vita ci sono sempre nuovi incontri, io non sapevo dell'esistenza  del melangolo ma me ne innamorai perdutamente.
Con l'incoscienza della giovane età, io e la mia famiglia eravamo partiti per una vacanza in Tunisia, nonostante l'imminente guerra del Golfo, erano gli anni novanta, anzi proprio per questo eravamo partiti, la gente non prendeva più l'aereo e i prezzi dei viaggi erano scontatissimi.
Il giorno prima della partenza l'agenzia viaggi, forse per  paura che  rinunciassimo  alla vacanza, il Governo aveva deciso che i viaggiatori che non partivano dovevano essere rimborsati, perchè era sconsigliabile farlo, non sicuro, ci aveva comunicato che saremmo stati  ospitati in un hotel a cinque stelle.
Vivere da ricchi, si sta veramente  alla grande, fummo accolti benissimo, lusso,  garbo e soprattutto la capacità di farti sentire a tuo agio, anche se magari ero un po' imbranata per certe comodità a cui non sono abituata.
Nel giardino di questo hotel da mille e una notte, vi era un angolo chiamato "Jardin d'orange", io lo guardavo dalla finestra lobata, dai vetri  colorati, e vi andavo a passeggiare, mi sembrava di essere una principessa nel   regno delle arance.
Tanto mi piaceva che il giorno della partenza scesi in giardino con l'intento di rubarne qualcuna per ricordo.
Non è facile rubare, pensarlo sì che sembra agevole, ma farlo è un'altra cosa, inoltre gli alberi erano piuttosto alti e io non riuscivo ad afferrarne nessuna, alla fine con fatica un'arancia l'acchiappai, la nascosi prontamente in borsa, nel mentre usciva un anziano signore  intabarrato in un lungo caftano il quale mi disse: "shalom", una parola ebraica che significa pace, ciao, arrivederci o stare bene, in pratica mi diede l'assoluzione per il furto, o almeno così pensai io.
Misi l'arancia nella valigia, pregustando il momento in  cui mangiando l'arancia, avrei rivissuto irrealmente ciò che era realmente accaduto.
A me piace sognare e realizzare un sogno, ma piace anche l'incontrario, rivivere  la realtà come un sogno.
Tutto doveva essere a posto, in ordine, per poter mangiare l'arancia, ogni cosa è importane se si  realizza con  riti e simboli.
Sbucciai l'arancia, profumatissima, misi in bocca uno spicchio...non era un'arancia, era amarissima, immangiabile, ma io non sopporto di perdere un sogno, aggiusto alla mia maniera, se fosse stata un'arancia sarebbe stata come le altre, essendo diversa era più bella, perchè è la diversità che crea la bellezza,  mi innamorai così dell'arancia amara...il  melangolo.


immagine di Teoderica

 

 

sabato 4 luglio 2015

IL PROFESSORE sesta puntata


Una biondina, dai capelli lunghi e lisci, esile come un giunco e come un giunco camminava, oscillando in qua e in là, forse era stata espulsa da scuola, forse aveva un appuntamento, forse aveva mal di testa.
Forse, forse, ma intanto era giunta là, davanti a lui, all’improvviso, e lo stava guardando con gli   occhi stupiti.
Franco infilò in fretta il coltello in tasca.
La ragazza aveva capito?
Aveva intuito qualcosa?
Si presentò, la ragazza si chiamava Silvia e la madre era stata un’allieva del Professore; ancora oggi, la madre le faceva una testa “così“, ricordandole il proprio impegno, le assemblee, le richieste, gli  scioperi e nominava il Professore, così bravo, così mite e sempre dalla parte degli studenti.
Silvia, aveva fretta, era uscita prima da scuola con una scusa, doveva incontrarsi con il suo ragazzo, un tunisino e perciò malvisto dalla sua famiglia.  
Si vedevano di nascosto.   
Era impaziente ma non poteva lasciare quell’anziano professore, tanto elogiato dalla madre, in fretta e furia, poi magari lui poteva mettere una pulce nell’orecchio della mamma.
Ravenna è una città piccola, la madre e il Professore potevano incontrarsi e lui dirle che l’aveva trovata fuori dalla scuola in orario di lezione.
Pensare che quando l’aveva visto accanto all’auto, la Mini Minor, un pensiero fulmineo le era baluginato in mente: “era forse lo sfregiatore dell’auto?”
Che pensiero ridicolo, era il … Professore.
Lo seguì nei giardinetti proprio dietro San Giovanni Evangelista, lui voleva sedersi su una panchina, voleva sapere di sua madre.
Sentì due dita farle pressione, sulla vena del collo, sentì venirle meno il respiro, non sapeva cosa accadeva, il suo ultimo pensiero fu per Abdul, avrebbe fatto tardi all’appuntamento.
Franco aveva la ragione sconnessa, l’inconscio guidava i suoi gesti, andava avanti a caso.
Invitò Silvia al giardino, era pieno di fiori, c’era la strada accanto, ma gli alberi creavano una cortina, e nel parco non c’era nessuno.
Seduti sulla panchina, Franco osservava la gola bianca di Silvia, lo sguardo correva sempre là.
Lo sguardo correva alla gola inerme di Silvia e il pensiero si rivolgeva al suo decoro, alla sua immagine pubblica che si sarebbe sgretolata.
 Silvia, lo aveva visto all’opera col coltello, ora, sempre per il motivo delle apparenze, non se ne rendeva conto, ma poi il pensiero sarebbe venuto a galla, e come un fiore malefico avrebbe  avvelenato l’esistenza di Franco .
Franco si rese conto di non poter vivere senza sua maschera pubblica.
Non voleva ucciderla, non voleva, le mani corsero veloci alla  giugulare che si trova nel collo, dove scorre sangue arterioso e che se viene gravemente lacerata o compressa, tipo strangolamento, ti può portare rapidamente alla morte, nel primo caso per emorragia e nel secondo caso per asfissia, perché  non circola più sangue nei grandi vasi cardiaci.
 La lasciò lì, come un burattino senza fili.
Nessuno lo fermò.
Silvia fu ritrovata dopo poco, proprio da Abdul, il suo innamorato.
Per il gioco delle apparenze e dei pregiudizi fu Abdul l’unico indiziato.



immagine di Teoderica